Il 17 luglio si ricordano le suore di Compiègne, Carmelitane martirizzate dai giacobini francesi.
Giusto per ricordare che la tanto sbandierata Rivoluzione si è occupata, oltre che di far sparire reliquie e profanare sepolcri e chiese anche di decapitare suore.
Le martiri di Compiègne sono sedici monache carmelitane uccise durante la Rivoluzione francese.Siamo in grado di descrivere esattamente ciò che accadde nel monastero di Compiègne, dove allora si trovavano 16 religiose professe. C’era anche una giovane novizia che all’ultimo momento era stata impedita dal prendere i voti, proprio da quel decreto che “non riconosceva più ne voti religiosi né alcun altro arruolamento che sia contrario ai diritti naturali”.
Giunsero dunque gli ufficiali municipali, violarono la clausura e si insediarono nella grande sala capitolare. Alle due porte furono messe quattro guardie. Altre guardie furono schierate, una alla porta di ogni cella, per impedire che le suore potessero comunicare fra loro e soprattutto che avessero contatti con la Priora; anche le altre porte dei chiostri furono presidiate.
L’idea che altrimenti le monache sarebbero state soggiogate e costrette a mentire dalla presenza della loro superiora (o da qualche consorella più dispotica) era data per assolutamente certa.
Ogni monaca venne dunque convocata singolarmente; a ognuna il presidente “annunciava (testualmente!) di essere apportatore di libertà, e l’invitava a parlare senza timore e a dichiarare se voleva uscire di clausura e tornarsene in famiglia…”. Un segretario intanto prendeva accuratamente nota delle risposte (la cui veridicità è perciò garantita dagli stessi “oppositori”).
La priora, convocata per prima, dichiarò “di voler vivere e morire in quella santa casa”.
Un’anziana disse “che era suora da 36 anni e ne avrebbe desiderati ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore”.
Una suora disse d’essersi fatta religiosa “di suo pieno gradimento e di propria volontà” e di essere “fermamente risoluta a conservare il proprio abito, anche a prezzo del proprio sangue”.
Un’altra spiegò che “non c’era felicità così grande come quella di vivere da carmelitana” e che “il suo più ardente desiderio era di vivere e di morire tale”.
Un’altra ancora insisté che “se avesse avuto mille vite, tutte le avrebbe consacrate allo stato che aveva scelto, e che nulla poteva convincerla ad abbandonare la casa dove abitava e dove aveva trovato la sua felicità”.
Un’altra consorella aggiunse che “approfittava di quella occasione per rinnovare i suoi voti religiosi, e anzi ne approfittava anche per regalare ai magistrati una poesia che aveva appena finito di scrivere, sull’argomento della sua vocazione” (ma quelli, andandosene, lasciarono il foglio sul tavolo, con disprezzo).
E un’altra ancora precisò che “se avesse potuto raddoppiare i vincoli che la legavano a Dio, lo avrebbe fatto con tutte le forze e con immensa gioia”.
La più giovane professa, che aveva emesso i voti proprio in quell’anno, osservò che “una sposa ben nata resta col suo Sposo, e che perciò niente la poteva indurre ad abbandonare il suo Sposo divino, Nostro Signore Gesù Cristo”.
Insomma, la risposta di tutte era, a dirla nel modo più semplice, che volevano “vivere e morire nel loro monastero”.Non venne interrogata la novizia perché non aveva voti e quindi, prima o poi, doveva tornarsene a casa per forza.
Anzi i parenti erano venuti per riprendersela, ma si erano sentiti rispondere che “niente e nessuno poteva separarla dalla comunione con la madre e con le sorelle di quel monastero”. Se ne erano ritornati dichiarando “di non voler più sentir parlare di lei, e nemmeno ricevere sue lettere”: dando così paradossale conferma alla scelta delle ragazze.
Il 12 settembre ricevettero l’ordine di abbandonare il monastero, che venne requisito.
Subaffittarono allora delle stanze, in uno stesso quartiere, in quattro case vicine, e si divisero in gruppetti, riuscendo a comunicare tra loro passando tra i giardini e i cortili interni.
Non avevano più monastero, né clausura, né grate, né chiesa. Periodicamente si riunivano nell’abitazione della Priora, per averne sostegno e guida, e per il resto cercavano come potevano di osservare la loro regola di preghiera, di silenzio e di lavoro, anche in quella situazione così inattesa e precaria.
«Pio X, nel 1906, proprio qui a Roma aveva beatificato le sedici Carmelitane di Compiègne martiri durante la rivoluzione francese. Durante il processo si sentì la condanna: a morte per fanatismo. E una nella sua semplicità ha chiesto: “Signor Giudice, per piacere, cosa vuol dire fanatismo?, e il giudice: “è la vostra sciocca appartenenza alla religione”. “Oh, sorelle!, ha detto allora la suora, avete sentito, ci condannano per il nostro attaccamento alla fede. Che felicità morire per Gesù Cristo!”. Sono state fatte uscire dalla prigione della Consiergerie, le hanno fatte montare sulla fatale carretta, durante la strada han cantato inni religiosi; arrivate al palco della ghigliottina, uno dopo l’altra si sono inginocchiate davanti alla Priora e hanno rinnovato il voto di obbedienza. Poi hanno intonato il Veni Creator; il canto, però, si è reso via via sempre più debole, man mano che le teste delle povere suore, ad una ad una, cadevano sotto la ghigliottina. Rimase ultima la Priora, Suor Teresa di S. Agostino; e le sue ultime parole furono queste: “L’amore sarà sempre vittorioso, l’amore può tutto”. Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l’amore può tutto».
Giovanni Paolo I, Angelus 24 settembre 1978
Grazie a Ermanno Radice e Charlie Bunga Banyangumuka per averlo condiviso su FB (qui, qui e qui)