La tenuta delle famiglie si basa spesso sul ricatto emotivo (e chi ha una comunicazione aperta è “la pecora nera”)
ll ricatto emotivo (in famiglia e altrove) è una forma di manipolazione psicologica: una persona utilizza le proprie emozioni e quelle della vittima, come debolezze e vulnerabilità, per costringerla a fare ciò che vuole. È un abuso esercitato spesso inconsapevolmente che paradossalmente penalizza chi ha una comunicazione aperta, facendolo/a sentire in colpa.
Il senso di colpa che si prova dopo aver detto la verità: così si può sintetizzare la sensazione attraversata dalle vittime di ricatto emotivo. Un abuso vero e proprio che si manifesta soprattutto nelle cerchie familiari ma non solo, anche in quelle amicali e tra partner (ma ovvio: bisogna essere state/i addestrate/i in casa, dall’infanzia).
In psicologia, il ricatto emotivo viene definito come una forma di manipolazione affettiva in cui una persona esercita pressione sull’altra facendo leva su paure, doveri o sensi di colpa per ottenere consenso o obbedienza. Ma la vera forza del ricatto emotivo sta nel fatto che non si parla mai apertamente di ricatto emotivo. Le pressioni non vengono verbalizzate, gli intenti non vengono dichiarati (spesso perché chi esercita questo abuso non si rende nemmeno conto di farlo).
Nelle famiglie questo tipo di meccanismo è onnipresente e invisibile a meno che non lo si subisca e, contemporaneamente, non si sia fatto un lavoro di decostruzione. La terapia, per essere chiare. Perché non solo non c’è bisogno di grida o di accuse esplicite: basta uno sguardo che reclama complicità, un atteggiamento offeso che rende impossibile dire di no, un non detto che pesa tonnellate e che obbliga all’azione, anche quando è contraria ai propri principi.
Qualche esempio: la madre che non chiede al figlio di prendere posizione nelle ostilità domestiche, ma che lo punisce col silenzio se non lo fa. È il padre che non formula una richiesta, ma lascia che la sua delusione occupi lo spazio. È la sorella che sparisce nel nulla di fronte a richieste blandissime (tipo di comprare il pane) per “insegnare” agli altri che non devono chiederle mai più niente. Tutto si regge sulla stessa logica: se vuoi che andiamo d’accordo questi sono i paletti.
per le vittime è un addestramento a lungo termine
Bambine e bambini che crescono imparando che l’amore si paga in obbedienza e che la propria libertà ha sempre un costo affettivo, avranno relazioni tossiche anche nell’età adulta. Loro diventano quei partner accondiscendenti, amici che non sanno dire di no, colleghi che si lasciano sfruttare.
Il ricatto emotivo non è infatti una dinamica limitata alla sfera domestica o che incide solo sul rapporto tra abuser e vittima: è un addestramento a lungo termine. Si impara presto a decifrare umori, a intuire silenzi, a percepire delusione come colpa. E lo schema continua a ripetersi, perché chi è stato allenato a compiacere non conosce altra via. A meno che non si faccia un lavoro di decostruzione, come detto, e allora paradossalmente si deve attraversare l’inferno.
Perché quando qualcuno afferra la tossicità del meccanismo, ne vede le dinamiche e decide di rompere lo schema, per esempio parlandone, viene marchiato come “egoista”, “insensibile”, “anaffettivo/a”. La società, e prima ancora la famiglia, non sopporta chi rifiuta di giocare il gioco delle colpe implicite.
Ma l’etichetta è menzognera: la ribellione non è patologia, è guarigione. Non è egoismo, ma l’unico segnale di salute psichica in un sistema che prospera sulla malattia.
la persona “sbagliata” diventa chi si ribella all’abuso
Ovviamente, in un clima in cui tutto va benissimo, chi osa verbalizzare, parlare apertamente, sollevare la questione per risolverla, sta compiendo un atto di ribellione imperdonabile. Chi osa farlo diventa automaticamente la “pecora nera”: non perché non ami, ma perché ha il coraggio di smascherare l’accordo ipocrita che regola i rapporti. Se la comunicazione fosse autentica, se ci fosse spazio per un confronto senza maschere, i legami ne uscirebbero più forti, non più fragili.
Ma la sincerità spaventa: incrina i rituali del silenzio, rivela la natura artificiale di quella coesione che si finge spontanea. E allora si preferisce tacere, perpetuare i ruoli, giocare la partita dell’implicito.
Il paradosso è che, nonostante la evidente impalcatura corrosiva, molte famiglie si tengono in piedi proprio grazie a questo cemento tossico. Un collante fatto di obblighi silenziosi, che mantiene compatto l’edificio mentre contemporaneamente lo corrode dall’interno.
Attinenza

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